Se nelle sedi delle principali banche centrali del mondo oramai da circa un anno e mezzo l’asticella dei tassi di riferimento è ferma ai minimi livelli possibili, non ovunque è così. E non si tratta solo di Paesi periferici o in via di sviluppo, ma anche di Stati che a buon diritto rientrano nel novero dei più industrializzati. Come l’Australia, che con l’ultima mossa al rialzo di martedì 4 maggio ha portato i tassi al 4,5%, un punto e mezzo in più rispetto al livello di ottobre.
Una decisione che il governatore centrale Glenn Stevens ha preso in virtù di un’economia solida e in miglioramento. Eppure questo quadro macroeconomico non si è tramutato in un solido rafforzamento del dollaro australiano, che pure si è assai apprezzato rispetto ai minimi di inizio febbraio (quando era arrivato a quota 0,8674) nei confronti di quello americano. Assai più costante il trend favorevole sull’euro. Sei mesi fa occorrevano 1,65 dollari australiani per acquistarne uno, oggi ne occorrono meno di 1,43.
Anche agli antipodi si sono, comunque, fatti sentire nell’ultimo periodo i timori sull’economia greca, ai quali si aggiunge la necessità di finanziare un deficit commerciale che le previsioni danno in aumento. Il dato previsto per la mattina del 6 maggio (la notte in Italia), dovrebbe mostrare un saldo negativo in aumento a 2,12 miliardi di dollari australiani a marzo, dagli 1,92 miliardi del mese precedente.
Il vero sostegno che ha impedito all’Australia di precipitare nella recessione mondiale, ovvero il settore minerario, non basta dunque a bilanciare le importazioni. Che potrebbero subire ulteriori aumenti, viste le previsioni sul commercio al dettaglio, dato in aumento su base mensile a marzo dello 0,7 per cento. Di Alfredo Ranavolo
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